PARLIAMO DI DISTANZIAMENTO FISICO (NON SOCIALE)
Dario Fortin

Un senso di disagio mi ha colto quando le istituzioni e la protezione civile hanno cominciato a proclamare il “distanziamento sociale” come soluzione a tutela della salute pubblica nel tempo del coronavirus. Più che un errore pratico e normativo, oggi mi pare più uno svuotamento semantico e una forma di ritardo scientifico che mostra poca avvedutezza delle istituzioni nella narrazione degli eventi che stanno cambiando la quotidianità della nostra vita. Mi sembrerebbe opportuno parlare dunque di “distanziamento fisico” per pandemia, aggiornando un lessico che è rimasto indietro di almeno un decennio, anche per favorire contemporaneamente forme di inclusione ed avvicinamento sociale per chi già è più vulnerabile.

La mia storia è quella di tanti impegnati nel settore sociosanitario pubblico e privato, educatori, insegnanti, religiosi, assistenti sociali, psicologi, medici, insomma tantissimi professionisti e volontari attivi a tutela della salute – già dalla metà degli anni Sessanta – che si sono prodigati per promuovere ed organizzare interventi nella direzione di favorire sempre la socialità assieme all’intervento riparativo o formativo. Ci sono migliaia di studi in vari campi del sapere, che confermano l’influenza positiva delle relazioni interpersonali nella cura delle patologie. Così come l’inclusione sociale è diventata da tempo uno degli obiettivi da perseguire nel campo dell’istruzione scolastica e della formazione professionale.

Da un mese stiamo sperimentando metodi per limitare la vicinanza “fisica” tra le persone e per ridurre il rischio di trasmissione del Covid-19 come la chiusura di edifici, uffici, scuole, centri commerciali, ristoranti, cinema, stadi e altri luoghi in cui le persone sono a maggior contatto. Tuttavia stiamo anche sperimentando rapidamente, oltre allo smart working, tutte quelle comunità “social” che stanno riunendo classi di studenti, equipe di colleghi, gruppi di spiritualità, gruppi di amici e familiari… Il settimanale Vita Trentina ha aperto una rubrica fissa denominata “risposte creative” a queste forme di limitazione. Perfino i musicisti si sono organizzati in videoregistrazioni o in prove a distanza in modalità sincrona. Dunque abbiamo visto in questi giorni, ancora una volta, la capacità di reagire positivamente delle persone e che il bisogno fondamentale di relazione appartiene fortemente al genere umano. Il soggetto esiste in quanto rapporto intersoggettivo. Addirittura il teologo e filosofo dell’educazione Martin Buber affermava che “in principio è la relazione”. Da qui emerge anche la nostra nostalgia alla dimensione “fisica” dell’incontro, che in questi giorni abbiamo dovuto lasciare da parte.

La provocazione pasquale ci ricorda che ancora troppe sono le persone escluse, rimaste ai margini della società e troppe sono le fatiche di chi si è adoperato per tentare di fare uscire disabili, anziani, tossicodipendenti, migranti dall’isolamento e dai processi di esclusione o stigma. Troppo estesi i tagli ai settori sanitario, sociale, scolastico e culturale. Troppe le forme di ingiustizia e disuguaglianza economica spesso cause di malattia. Troppe ancora le guerre nel mondo. Eppure la famosa Carta di Ottawa dell’OMS nel 1986 aveva consegnato le linee guida del nostro operare ai governi del mondo quando diceva che “le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi prerequisiti fondamentali”.

Il virus attacca tutti allo stesso modo, ma le conseguenze peggiori di esso vediamo che ricadono sulle persone più vulnerabili e culturalmente ed economicamente più povere. Questa pandemia, assieme al distanziamento necessario a combatterla, ha evidenziato le disuguaglianze esistenti e probabilmente aumenterà ancora la forbice tra privilegiati ed esclusi.

E’ arrivato il tempo di invertire decisamente la rotta nella direzione del disarmo per riposizionare quelle ingenti spese in armamenti su decisi investimenti pubblico-privati nei settori in passato cosiddetti “improduttivi” ma che in futuro potranno maggiormente garantire salute, pace e benessere come la sanità, il sociale, la ricerca, l’istruzione e la cultura. Per i nostri figli e nipoti lavoriamo perché, nel caso di maggior distanziamento fisico, possa corrispondere un minor distanziamento sociale, spirituale ed economico di oggi.

Dario Fortin, L’ Adige 19 aprile 2020

Per approfondire la tematica qui trovate tutte le pubblicazioni, le interviste e le registrazioni fatte per discutere l’argomento

http://www.explorans.it/129/coronavirus-distanziamento-fisico-e-non-sociale