empatia

La cosa di cui hanno più bisogno gli esseri umani è il desiderio sconfinato di essere ascoltati”.

Eugenio Borgna, L’ascolto gentile. Racconti clinici. Giulio Einaudi ed. (2017)

Anche le stelle sono malate di protagonismo: brillano sul proprio scintillio esattamente come noi. A volte viene il dubbio che l’attenzione verso l’altro sia una dote fortuita, come nascere con gli occhi azzurri. Lo stesso Karl Menninger, psichiatra americano, sostiene che ascoltare è “una forza creativa”. Non è da tutti accordarsi con lo stato d’animo altrui. Eppure, chi riesce a mettersi nei panni altrui è dotato di empatia, una risorsa/dote innata – ma anche acquisibile, “educabile” – che si può dire è anche alla base del corteggiamento.

Winston Churchill parlava di “audacia” dell’ascolto: “Il coraggio è quello che ci vuole per alzarsi e parlare; ma è anche quello che occorre per sedersi e ascoltare”. Dunque? Per passare dal “sentire” all’“ascoltare” bisogna unire la sensibilità di E. Borgna alla forza di mettersi in silenzio ribadita da W. Churchill.

Nessuno ci obbliga a dare una monetina a chi ci chiede l’elemosina a bordo strada. Lo facciamo spinti dall’empatia, che è la capacità di sentire sulla nostra pelle le emozioni dell’altro. Una dote/capacità pronta a manifestarsi quando meno ce lo aspettiamo. Ad es., in amore: immedesimarsi nei sentimenti altrui è infatti alla base del corteggiamento.

Se c’è feeling-sintonia, c’è anche empatia

Come capire se tra voi e la persona con cui siete a cena c’è empatia, in altre parole se c’è feeling? Cronometrare i silenzi nella vostra conversazione: se perdurano per più di 4’’, la persona non fa per voi. Namkje Koudenburg del dipartimento di Psicologia dell’Università di Groningen (Paesi Bassi), ha condotto uno studio su 162 studenti universitari (risultati pubblicati sul Journal of experimental social psychology). “Abbiamo scoperto – spiega Koudenburg – che una conversazione fluente ci informa che facciamo parte del gruppo, e che siamo d’accordo l’uno con l’altro. Questo tipo di conversazioni serve per stabilire l’appartenenza, l’autostima, e fornisce una validazione sociale”.

Dallo studio è emerso che chi ha sperimentato, nel corso delle conversazioni simulate, un silenzio per più di 4’’ ha riferito di provare paura e di sentirsi in difficoltà o respinto. Tuttavia esistono, per fortuna, anche segnali incoraggianti. Monica Moore della Webster University (USA), ha osservato i comportamenti messi in atto dalle donne durante il corteggiamento e le relative reazioni maschili, individuando 52 segnali di disponibilità, e quindi di empatia, espressi dal “gentil sesso”. Segnali che non vengono sempre letti correttamente dai maschi.

Che sia tra due partners o tra due sconosciuti, l’empatia ha pur sempre un’origine biologica. Lo si sa da tempo, ma nel 2011 gli scienziati del Max Planck Institute for biological cybernetics di Tubinga (Germania), hanno dimostrato che anche nel cervello dei macachi sono presenti i neuroni “Von Economo”, strutture simili a quelle attive nell’insula anteriore dell’uomo, ovvero l’area di corteccia cerebrale che ha uno specifico ruolo nelle funzioni di auto-coscienza (= percezione di chi siamo), e nella percezione delle emozioni altrui. Secondo gli studiosi, i neuroni dei macachi sarebbero una forma primordiale di quelli umani; il che farebbe pensare che l’empatia è un sentimento innato, già presente agli albori dell’evoluzione dell’uomo così come lo è negli animali, prime fra tutte le scimmie antropomorfe in grado di percepire le emozioni dei loro simili e di provare compassione.

Specchio dei miei neuroni

A questa conclusione giunsero, tra gli anni ’80 e ’90, gli studiosi dell’équipe dell’Università di Parma, coordinata da Giacomo Rizzolati, con la scoperta dei celebri “neuroni specchio”. I ricercatori dimostrarono che alcune strutture nervose si attivano non solo all’esecuzione di specifici atti motori, ma anche osservando altri nell’eseguirli. La dimostrazione di un legame tra le nostre emozioni e quelle degli altri smentisce del tutto le ipotesi psicologiche secondo cui la natura umana è fondamentalmente violenta, egoista e inadatta alla convivenza civile. “Ipotesi che – come spiega lo zoologo ed etologo olandese Frans De Wall – sono state utilizzate da molti politici ed economisti per giustificare gli eccessi della competizione umana”. Del resto, sentire le emozioni degli altri ha un’importanza fondamentale nelle relazioni sociali. “L’empatia gioca un ruolo importante perché favorisce la coesione”, spiega Franca Tani, docente di psicologia dello sviluppo all’Università di Firenze e autrice, insieme a Silvia Bonino e Alida Lo Coco, del libro “Empatia. I processi di condivisione delle emozioni” (Ediz. Giunti).

Non penso che l’individualismo moderno possa mai cancellarla: l’uomo è un animale sociale e ha bisogno dei propri simili”. Certo la cultura e la società l’hanno plasmata, e ne hanno esteso il campo d’azione. Il linguaggio ha avuto un ruolo fondamentale: “Non è un caso che psichiatri e psicoterapeuti usino proprio la parola per indurre stati affettivi nei clienti facendo leva sull’empatia che instaurano con loro”, spiega Jean Decety, docente di Psicologia e Psichiatria all’Università di Chicago (USA). Un esperimento condotto dallo stesso J. Decety ha dimostrato il ruolo della parola nella formazione di sentimenti empatici: sottoposti a scene in cui si mostravano persone sofferenti, alcuni soggetti hanno evidenziato modificazioni importanti nei circuiti neurofisiologici coinvolti nelle reazioni emotive – osservati per mezzo della risonanza magnetica funzionale – al variare delle istruzioni verbali date dagli sperimentatori.

Interruttori culturali

È anche per questo che nel corso dell’umanità il famoso detto “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” si è ampliato: abbiamo imparato a provare empatia verso soggetti sempre più distanti da noi. Così a partire da 1,5 milioni di anni fa l’individualismo finalizzato al soddisfacimento dei bisogni di base è stato sostituito da una prima forma di empatia, quella nei confronti del nucleo familiare. Il confine tra storia evolutiva e storia culturale – che secondo gli antropologi va fatto risalire a 35mila anni fa – avviene però quando l’uomo inizia ad avvertire empatia e senso di responsabilità, anche nei confronti della comunità in cui vive. Sentimenti che con il tempo si trasformano in “empatia cieca”, rivolta cioè anche a membri non conosciuti della società. La modernità ci insegna, infatti, anche un’altra forma di empatia ancora più estesa: quella nei confronti di tutte le specie viventi della natura. Oggi, infatti, l’altruismo auspicato è quello verso l’ambiente, oltre che verso gli altri esseri umani. Il termine “auspicato” è d’obbligo: un conto è quanto/come una società si propone, altro è la nostra reale capacità di provare empatia.

La “sindrome di Pollyanna”

“L’impressione – spiega Michele Di Francesco, docente di Filosofia della Scienza all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – è che siamo meno empatici di un tempo: l’urbanizzazione ha aumentato le distanze tra parenti e amici”. Eppure qualcosa si sta muovendo: “L’avidità ha fatto il suo tempo: ora è il momento dell’empatia”, afferma Frans De Wall nel suo recente: “L’età dell’empatia” (Ediz. Garzanti), in cui analizza i comportamenti di un Occidente che sta riscoprendo nella solidarietà una via di uscita ai drammi che l’hanno colpito, dal terrorismo, alla crisi finanziaria, alla pandemia da Covid-19. “L’accento si è spostato su ciò che tiene insieme la società – spiega – piuttosto che sulla ricchezza materiale che da essa si può ricavare”. Ma attenzione: anche un atteggiamento troppo empatico è “rischioso” (la Psicologia cognitiva ha bollato “l’eccessiva empatia” con il nome di “sindrome di Pollyanna”, dalla protagonista del romanzo che vedeva tutto positivo). “Il comportamento maturo – spiega Tani – sta nell’equilibrio tra l’apertura al confronto con gli altri e la difesa del proprio Sé”.

Essere empatici richiede 4 doti/abilità/competenze:

  1. Essere capaci di “sentire” quello che l’altro sente, sta vivendo: siamo empatici se cogliamo/sentiamo le emozioni di chi osserviamo/ascoltiamo.

  2. Assomigliarsi/immedesimarsi senza identificarsi: siamo empatici se il nostro stato emotivo/affettivo “assomiglia”, è in “accordo” con quello di chi abbiamo di fronte. Se questa condizione/parametro non ricorre o non è rispettato, non si può sempre parlare di empatia, ma perlopiù di reazione emotivo-affettiva.

  3. Le nostre emozioni possono “dipendere” da quelle dell’altro, ma senza confondersi: siamo empatici anche quando lo stato emotivo/affettivo della persona che osserviamo/ascoltiamo diventa la “sorgente” anche del nostro stato emotivo/affettivo. Si può quindi dire che non è sufficiente che i due stati emotivo-affettivi siano simili, ma in qualche modo devono “trasmettersi” da un interlocutore all’altro, o anche “contagiarsi”. Per esempio: due persone che guardano un film possono provare emozioni simili, senza però che uno provi “sintonia” per l’altro. E questo non rende le due persone empatiche tra loro.

  4. Essere consapevoli che è l’altro che ci fa sentire così: siamo empatici se siamo consapevoli del legame tra lo stato emotivo-affettivo dell’altro e il nostro. Immedesimarsi nell’altro non equivale a identificarsi con le sue emozioni, ma percepirle/sentirle, senza tuttavia confondersi (= congruenza). Ad es.,: un bambino che si mette a piangere vedendo un altro piccolo in lacrime non è per forza empatico: molto probabile, infatti, che non sia in grado di capire se il suo disagio è stato “acceso” da quello del compagno, oppure no.

L’empatia si impara durante l’infanzia: “I bambini hanno meno sovrastrutture e quindi si immedesimano meglio negli altri”, spiega Tani. Già nel corso degli anni ’50 i coniugi Norma e Seymour Feshbach dell’University of California a Los Angeles (USA), diedero vita a un programma destinato ad insegnare ai bambini delle elementari a gestire l’apprendimento delle emozioni e dell’empatia attraverso attività ludiche. Ma è sempre possibile rieducarsi alla sensibilità: in questo sono utili molte esperienze adulte, come l’amicizia e la vita di coppia. “Grazie agli amici e al partner impariamo che gli altri possono vivere emozioni diverse dalle nostre di fronte allo stesso evento”, conclude Tani.

– a cura di: L. Guidolin – psicologo/psicoterapeuta