Fare cose con le parole

riflessioni emerse dall’incontro con la Comunicazione non violenta (CNV)

Il linguaggio è universale. Lo diceva già Noam Chomsky che ogni essere umano nasce con una predisposizione innata ad acquisire una lingua. Una mente già predisposta ad accogliere una lingua è una mente che si forma attraverso la lingua. Stretta è infatti l’interdipendenza tra come percepiamo il mondo, come lo esprimiamo e come lo creiamo. Parlando, facciamo tutte e tre queste cose. Parlando facciamo sempre cose.

In una delle primissime lezioni di linguistica a cui ho assistito anni fa, scoprii che ogni parola, o meglio ogni unità sintattica minima dotata di senso, non ha un solo significato, ma ne può avere tanti.

Pensiamo per esempio l’avverbio: “Avanti”. Innanzitutto ha un significato fonetico: in base a come la pronunciamo o all’intonazione che gli diamo può minacciare o accudire, indipendentemente se una persona conosce la lingua o meno. Ha un significato semantico: andare in una direzione “avanti” rispetto ad un “dietro”. Ha anche un significato pragmatico se la inseriamo in un contesto: per esempio un addetto alle poste vuole segnalare in modo sgarbato di concludere una conversazione, oppure potremmo incoraggiare una persona a non fermarsi, ad avere la forza necessaria per continuare.

Un mittente quindi manda un messaggio e questo viene ricevuto e decodificato dal destinatario in base ad esperienze passate, al contesto, all’educazione, non necessariamente con l’intenzione con cui l’abbiamo mandato.

Alle volte ci rendiamo addirittura conto di aver usato delle parole aggressive solo quando abbiamo ferito qualcuno, scusandoci perchè l’intenzione era diversa.

La maggior parte delle volte, purtroppo però, non ce ne rendiamo conto; ma possiamo stare pur certi che facciamo cose anche quando non ne siamo consapevoli, tanto forte è il potere e la responsabilità che sta nell’uso delle parole. Come dice il primo assunto della comunicazione: non possiamo non comunicare perché siamo sempre in interazione; tutto il nostro essere è in comunicazione.

Le parole “come devi…“, “se non fai così allora…“, “secondo me sei…” o anche il semplice “bravo” che implica tacitamente il meno bravo quando non fai come dico io, sono parole che creano mondi, disegnano catene e lanciano pugnali, nei quali gli altri possono trovarsi imbrigliati, ma delle quali noi stessi per primi siamo vittime, perché le parole che usiamo con gli altri sono le stesse che abbiamo imparato a maneggiare con noi stessi.

È un “linguaggio sciacallo” perché rubiamo in primis la possibilità i ascoltarci, di entrare in empatia con qualcosa che avrebbe voluto essere ascoltato, per indicarci la giusta direzione, per stare bene. Se ci parliamo facendoci sentire in colpa, o dandoci un premio, è un modo per esercitare una forma di potere nei nostri confronti: ci spingiamo a re-agire, risparmiando sull’ascolto dei nostri bisogni più profondi. Evitiamo in questo modo di entrare in contatto con quello che siamo davvero.

Risparmiare sulle emozioni ci preclude di vedere la strada verso i nostri bisogni veri che ci accomunano tutti come esseri umani.

Come diceva il grande poeta Rumi, sii grato a chiunque arrivi, perché ogni emozione è mandata dall’aldilà per farti da guida.

Infatti, l’assunto di Rosenberg, padre della Comunicazione Non Violenta, è che i nostri veri bisogni sono universali: autonomia, protezione, integrità, trascendenza, interdipendenza… rispondono a dei messaggi che ci manda una nostra, per così dire, coscienza inconscia, una saggezza che ognuno può ascoltare per capire come stare davvero bene.

La filosofia buddhista ci assicura che tutti gli esseri senzienti sono accomunati dal voler essere felici, così i bisogni sono il modo con cui entrare in contatto con tale felicità. È l’illusione della separazione a portare sofferenza. Le strategie, spesso confuse con i bisogni e talvolta contraddittorie, sono quelle che ci differenziano e ci fanno entrare in conflitto con gli altri e con noi stessi.

Se io penso che per essere felice dovrò avere tanto denaro, questa è la mia strategia, userò quindi delle parole che cercano di sfruttare l’altro, per trovare il modo più veloce per accumulare denaro. Ma, nonostante questo, il desiderio di essere felice rimane il più nobile dei desideri che condividiamo.

Dopo che abbiamo compreso l’effettivo impatto delle parole, la Comunicazione Non Violenta diventa uno strumento utile a non limitare la nostra spontaneità espressiva per paura di un conflitto o di una ferita. È, invece, una via per entrare in connessione con l’altro parlando delle proprie emozioni, aiutandosi a vicenda per districare i reali bisogni che ci accomunano. Per fare questo è importante ampliare la nostra ricchezza lessicale, soprattutto emotiva: dando riconoscimento onesto a ciò che mi succede apro uno spazio, in me, di ascolto, per accogliere il mondo intero.

Nikodemus Wrobel

Un essere umano tra otto miliardi su questo mondo, in attesa di morire per capirci qualcosa. Nel frattempo imparo ogni giorno quanto sono piccolo e povero; navigo e naufrago ispirato da cose belle a da esseri che si donano chiedendo in cambio niente.

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